Il verde delle colline bosniache è stato una scoperta della mattina. La prima sorprendente immagine (di notte, durante il viaggio) sono state le moschee, alternate alle chiese ortodosse. La prima sensazione il freddo, appena scesi dalla macchina.
20 settembre 2008. Siamo arrivati a Soko dall’Italia per la quarta Maratona di pace: sei chilometri da Gracanica (Federazione croato-mussulmana) a Petrovo (Repubblica Serbska) attraversando i ponti dello Spreca. Due ore di sonno nella scuola di Soko e poi in macchina verso la partenza. Il cielo grigio promette pioggia. Sui muri delle case si vede qualche traccia della guerra, ma le strade, i negozi, i nuovi centri commerciali mostrano che si va avanti.
Il nome “maratona” deriva dalla città di Maratona, che si trova in Grecia, poco distante da Atene. Proprio lì gli ateniesi sconfissero l’esercito persiano di Dario nel 490 a. C. Si racconta che a dare la notizia della vittoria fu un certo Filippide, che percorse correndo i quarantadue chilometri che separano Maratona ed Atene. In ricordo di quell’impresa nella prima edizione dei giochi olimpici moderni (Atene 1896) venne inserita una gara di corsa che riprendeva quella leggendaria distanza.
A pensarci, la corsa di Filippide – origine della maratona – servì in fondo ad annunciare la fine della guerra; credo che questa fosse la notizia attesa dagli ateniesi che avevano i propri figli nelle fila dell’esercito. Alla fine della guerra e alla costruzione della pace è legata anche la piccola maratona Gracanica-Petrovo, nata quattro anni fa su iniziativa dei Comitati per le iniziative di pace della provincia di Padova per favorire l’incontro e il dialogo tra bosniaci che, nel conflitto terminato nel 1995, hanno combattuto in fronti avversi e che oggi vivono a poca distanza, separati dal fiume Spreca.
La partenza è vicino a una fabbrica di legname. Quando arriviamo c’è già molta gente. I volontari sono al lavoro lungo il tracciato. Arrivano pulman pieni di ragazzi dai diversi villaggi: Gornja Orahovica, Soko, Babici, Škahovica, Doborovci, Privava. Oltre a Kakmuz e Petrovo, quest’anno c’è anche Karanovatz. I podisti alla fine saranno quasi cinquecento. I ragazzi scendono dai pulman con il numero e la maglietta della maratona; molti di loro riconoscono gli animatori italiani dei campi estivi e corrono a salutarli e ad abbracciarli: si capiscono un po’ a gesti, un po’ con l’inglese. Io non c’ero ai campi (è la mia prima volta in Bosnia) e non distinguo i ragazzi di Soko o Babici da quelli di Karanovatz; vedo solo ragazzi di tutte le età con le stesse magliette gialle (over 15) e azzurre (under 15) allegri, emozionati, con la voglia di partire e correre; hanno lo stesso modo di fare dei loro coetanei di Padova e guardandoli penso che sono davvero una speranza: forse tra loro, che non hanno vissuto direttamente la guerra, è più facile che si ricominci a parlare, superando diffidenze e pregiudizi reciproci.
Recuperiamo anche noi numero e maglietta e alle undici finalmente siamo dietro la linea di partenza. Poi il via. I più grandi partono veloci; io vado piano e mi guardo intorno. Il primo tratto è uno sterrato in mezzo alla campagna. Ogni tanto cade qualche goccia di pioggia, il freddo invece è costante, ma andando avanti si sente sempre meno. Arrivati all’asfalto comincio già a sentire i primi segni di stanchezza: sei chilometri sono pochi, ma sono comunque sempre impegnativi soprattutto per chi è un po’ fuori allenamento. Sorpassiamo qualche gruppetto per poi venire superati di nuovo. Correre è faticoso e c’è sempre un punto – specie nelle lunghe distanze – in cui sembra di non farcela: gli esperti chiamano questa sensazione bonking. Se si stringono un po’ i denti però il dolore si attenua: a volte basta pensare al traguardo che si avvicina; spesso sono di aiuto gli altri: nella maratona si corre ovviamente sempre da soli, con le proprie gambe, ma si è anche insieme; e gli altri possono essere, a seconda dei momenti, di conforto o di stimolo a fare meglio. La tenacia che ti impone la corsa è un altro degli aspetti belli e significativi della maratona. Passiamo un ponte e siamo nella Repubblica Serbska: lo si nota più che altro dai caratteri cirillici dei segnali stradali. Qualcuno rallenta e qualcun altro riparte: l’importante è arrivare in fondo. Ai lati della strada gruppi di volontari indicano il percorso e incitano i corridori. Ormai ci siamo: in lontananza intravediamo la scritta blu su sfondo giallo Cilj. Siamo tra i primi ma in breve arrivano tutti. Fuori da una casa in costruzione che poi servirà da palco per la premiazione, alcune donne di Karanovatz hanno preparato un ricco ristoro per i partecipanti: panini con carne di vario tipo, un centinaio di pizze, bibite. Dopo la fatica è il momento della festa. La premiazione (presenti diversi capivillaggio) sembra non finire mai, perché oltre ai primi classificati ci sono i premi di consolazione e poi l’estrazione della lotteria: ogni premio, un applauso. All’interno della cerimonia si alternano le esibizioni di singoli e gruppi dei villaggi partecipanti, alcuni – soprattutto nelle danze tradizionali – sorprendenti per la bravura. Verso le quattro i saluti: volontari e ragazzi si danno appuntamento alla prossima estate.
Una maratona come questa non cambia il corso della storia: è un ricordo bello, da conservare. Ma è anche da una memoria nuova, diversa che può ricominciare il dialogo.