«Era l’11 luglio 1995. Me lo ricordo benissimo. Arrivò la notizia, secca, che migliaia e migliaia di persone erano in marcia da Srebrenica verso il campo profughi dell’Onu Tuzla. Quel giorno, di rientro da una missione nella regione dei Grandi Laghi in Africa, ero a Strasburgo, e stavo facendo la mia relazione al Parlamento europeo». Emma Bonino, ai tempi del più grave massacro accaduto sul suolo europeo dai tempi della Seconda Guerra Mondiale, di cui ricorre il ventennale e che oggi chiamiamo genocidio, era da pochi mesi Commissario Ue per gli Aiuti Umanitari. E le «capitò» di scoprire il massacro di Srebrenica. Questo è il suo racconto.
«Quando abbiamo saputo che migliaia e migliaia di persone erano in cammino verso Tuzla, abbiamo deciso di andare subito a vedere cosa stesse succedendo. In piena guerra nella ex Jugoslavia, e con le milizie serbe di Mladic che da tempo avevano sotto tiro le enclave serbo-bosniache musulmane, l’Onu aveva allestito sei “safe area”, zone di sicurezza presidiate dai Caschi Blu che però non avevano il mandato atto a proteggere la popolazione. All’epoca, ancora si credeva che la bandiera dell’Onu potesse essere un deterrente. Srebrenica era una di quelle “safe zone”, una enclave in territorio serbo, Tuzla il campo profughi più vicino.
Atterriamo in elicottero, e percorriamo il campo. In un silenzio spettrale, passiamo in lungo e in largo tra le tende, la mensa, l’astanteria, gli uffici, l’ospedale da campo. E a un certo punto mi accorgo di aver visto solo donne, vecchi e bambini. Quante persone ci sono qui?, chiedo. Ero certa, perché mandavamo aiuti, che a Srebrenica ci fossero 42 mila cittadini. A Tuzla fanno i conti, due volte, e ci accorgiamo che ne mancano 8 mila. Tutti uomini, o adolescenti maschi, in età per combattere. Torniamo in mezzo alle tende, parliamo con le donne, e loro ci raccontano che i serbi li hanno divisi, donne vecchi e bambini da una parte, uomini e ragazzi da un’altra. Penso che devo tornare a Roma e denunciare la cosa. Saliamo sull’elicottero, ma si scatena un temporale, “rischiamo di sfracellarci sulle montagne”, dice il pilota, e torniamo indietro. Da Tuzla, mentre aspettiamo di ripartire, mi metto in contatto con la Croce Rossa.
Un paio di giorni dopo, quando riesco a rientrare, scrivo un rapporto che da Bruxelles viene mandato a tutte le capitali europee. Incredibilmente, segue la più totale indifferenza. Silenzio. E se qualcuno mi rispondeva, era per dirmi “chissà, magari gli uomini e i ragazzi si sono nascosti nelle foreste”. Foreste? Ma se non ci sono più foreste, la guerra le ha cancellate tutte, rispondevo inutilmente io… Bisognerà aspettare un mese, quel 10 agosto del ’95 in cui il Segretario di Stato americano, Madeleine Albright, che pure avevo subito informato di quello che era accaduto a Tuzla, rende pubbliche le foto satellitari di Srebrenica nelle quali si vedono chiaramente le fosse comuni. Quegli ottomila uomini e ragazzi serbo-bosniaci e musulmani separati da vecchi, donne e bambine dai serbi non erano nelle foreste. Erano morti nel massacro delle truppe del generale Mladic».
«Per quasi un mese, del massacro di Srebrenica non si sa niente e nessuna capitale reagisce al rapporto che avevo inviato. Ma anche dopo le foto della Albright, la negazione pressoché totale da parte degli europei continuò a lungo. Per i Caschi blu olandesi che avevano lasciato passare i militari di Mladic senza colpo ferire cadde poi il governo olandese. Solo nel 1993, grazie agli italiani, al governo di Giuliano Amato che con i francesi si fa promotore di una apposita risoluzione al Consiglio di Sicurezza dell’Onu, era nato un tribunale ad hoc per i crimini di guerra nella ex Jugoslavia, dal quale parte una campagna che porterà alla nascita del Tribunale Penale Internazionale. Nel 1996 sono tornata a Srebrenica, per la commemorazione, e ancora l’anno dopo con Hillary Clinton e l’ex ministro degli Esteri italiano Susanna Agnelli per il progetto di riconciliazione dell’Institute for Inclusive Security, centrato sulle donne che saranno alla commemorazione anche per questo ventennale, un progetto che nacque proprio in quei giorni lontani. Ma da allora, le cose non sono cambiate molto. Nessuna capitale reagì allora, nessuna pensò di coinvolgere l’Europa».
Qualche giorno fa, l’«Observer» ha pubblicato un’inchiesta nella quale si dice che Francia, Inghilterra e Usa non intervennero militarmente a Srebrenica per non indisporre Milosevic che doveva sedersi, di lì a pochi mesi, al tavolo degli accordi di Dayton. Lei che ne pensa, si aveva sentore di qualcosa del genere, in quei giorni? «Perché, qualcuno pensò mai di coinvolgere l’Europa? No. Le cose vanno così ancora oggi. Pensiamo all’intervento francese in Mali. Parigi non ha comunicato a nessuno la sua decisione, tantomeno alla Ue. Si è limitata a farla ratificare, due mesi dopo, alla riunione Ue dei ministri. E il tutto, alla faccia del Trattato di Lisbona, e del previsto coordinamento della politica estera. Da quell’11 luglio del 1995 sono cambiate molte cose. Ma non in Europa. La Ue continua a non funzionare, per carenze proprie, ma soprattutto per le precise volontà dei governi nazionali».